C’erano una volta i gol made in Italy

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Il Messaggero (M. Ferretti) – Italia popolo di poeti, artisti, eroi e non più di centravanti. Paolo Rossi con il Pallone d’Oro tra le mani è un’immagine della preistoria o giù di lì. Gli italiani, ormai, segnano solo dal fornaio. Crisi di vocazione o di opportunità? Che tradotto significa: le punte autoctone non sanno più far gol perché i club preferiscono gli attaccanti stranieri oppure giocano gli altri perché i nostri valgono poco? Un po’ l’uno e, a ben vedere, anche un po’ l’altro. C’è poco materiale e c’è anche poca fiducia. A scatola chiusa, sempre meglio il gringo o il niño piuttosto che lo scugnizzo o il picciotto. Dando un’occhiata agli organici delle prime tre dell’ultimo campionato, del resto, non si hanno tracce di giovanotti italiani con il piede caldo. E se la Juventus perde Tevez, lo rimpiazza con Mandzukic e Dybala, mica con Zaza e Berardi. La classifica dei marcatori, dominata da nonno Luca Toni alla pari con l’argentino Mauro Icardi, è la sintesi perfetta di causa ed effetto.

E, così, chi è chiamato a tener alta la bandiera tricolore, dal ct Antonio Conte in giù, non perde occasione per lamentarsi. Senza, però, far qualcosa che possa cambiare l’andazzo. Con l’Under 21 che all’Europeo non sta segnando neppure a porta vuota. E pensare che il numero di aspiranti attaccanti continua ad essere elevatissimo: nelle scuole calcio abbondano i bambini che da grandi vogliono fare Messi o Cristiano Ronaldo e scarseggiano – ad esempio – quelli che sognano di emulare Buffon. Solo che oggi nei club professionistici spesso le selezioni avvengono più per parametri fisici che tecnici: si scelgono sempre quelli grossi e non sempre quelli più piccoli e magari più bravi con il pallone tra i piedi. E così, a gioco lungo, viene meno la qualità.

LA LOGICA DEL PROFITTO –  Se saper far gol è un’arte, in Italia oggi mancano gli artisti. Chi ha un dono di natura, si sa, non ha bisogno di altro: parte, va e non lo ferma nessuno. Ma se non sei un predestinato, il lavoro ti può aiutare. In Italia, però, si lavora poco e si ha ancor meno pazienza con chi non è stato baciato dalla Fortuna. La logica del “tutto e subito” è dominante. Così la Juventus prende Morata e molla Immobile, per dirne una. E nessuno saprà mai se l’italiano in bianconero avrebbe fatto peggio o meglio dello spagnolo. Ecco perché basta un nulla per spacciare per fenomeno un attaccante con il passaporto italiano lontano tecnicamente anni luce da quelli da Scarpa d’Oro, e non solo da loro. Le naturalizzazioni (parecchio) forzate di punte (mezze) straniere rappresentano una necessità e al tempo stesso la debolezza dell’intero movimento nostrano.

Qui si preferisce ancora troppo investire su un diciottenne straniero piuttosto che su un intero settore giovanile, ecco il punto. La logica imprenditoriale del calcio attuale, almeno in Italia, non dà spazio alla pazienza. Sarà anche vero che, come le mezze stagioni, non ci sono più gli attaccanti di una volta, ma giustificare la crisi del gol Made in Italy solo con la mancanza di materia prima appare credibile e condivisibile fino ad un certo punto.

Ciro Immobile, ultimo capocannoniere della Serie A non in odore di pensione, due stagioni fa ha segnato 22 reti con la maglia del Torino e – come detto – è andato a giocare a Dortmund, perché qui da noi nessuno se la sentiva di dargli ulteriore spazio. E non si dica, visto il suo rendimento tedesco, che è stato giusto così.

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