La Repubblica – L’ Incompreso sono vent’anni senza Agostino

Agostino Di Bartolomei

Non può esserci niente di nuovo. Passano gli anni. Aumentano gli anniversari. Agostino Di Bartolomei è sempre lì: da nessuna parte o chissà dove. Si è ucciso venti anni fa, il 30 maggio 1994, dieci anni esatti dopo Roma-Liverpool. Aveva 39 anni, Agostino, e l’anima intasata, colorata di grigio. Al di là di quanto ha fatto o non fatto, con quel suo torvo e al tempo stesso sereno modo di comunicare col mondo, “falso dieci” moderno e antico, è stato un grande calciatore, lineare, sobrio, potente, intelligente, dal destro prodigioso, dal lancio di 40 metri. In quel giorno di disperazione, un giorno ideale per i “pesci banana” secondo Salinger, l’Ago della bilancia si è spostato verso la parola fine. Tante cose non gli era riuscito di far funzionare per sé, per la famiglia. Sognava di costruire una Trigoria a Castellabate. C’era gente che gli voleva bene, gente che non lo capiva, alcuni gli sbatterono la porta in faccia. Vent’anni fa ma sembra un secolo. Il calcio si è trasformato in un call center, parlano tutti, non avrebbe trovato spazio: aveva una calata a singhiozzo e occhi scuri troppo carichi di malinconia. Un atleta così diverso dai mercenari moderni, così simile a certi scrittori, o cantautori, o pittori, che sono morti giovani e che per questo è difficile immaginare anziani (Nick Drake, Arthur Rimbaud, Caravaggio). Non era certo un tipo facile, Agostino. Un giorno, a San Siro, esultò dopo aver segnato il 2-1 alla Roma con la maglia del Milan.

Lo chiamarono tradimento. In realtà qualcuno a Roma lo aveva costretto a traslocare. Fu condannato a seguire Liedholm in rossonero. Quindi era qualcosa che andava oltre il tradimento e forse non necessitava di perdono (“Tradimento e perdono” è il titolo della canzone che gli dedicò Antonello Venditti). Non bastò l’esporsi di tante personalità per evitarne la cessione.

Nemmeno Guttuso (non Gattuso) riuscì a convincere Dino Viola. Al ritorno lo fischiarono. Non sapeva se legarsela al dito o tagliarsi una mano perché sentiva che in fondo un po’ era anche colpa sua. Fece quasi a pugni con Graziani. Agostino Di Bartolomei era il capitano di una squadra che sfidando il contesto osò mettere il naso fuori dal giardino di casa, finalmente non più “Rometta”.

Era una bandiera. Ce ne sono pochi adesso. Giggs probabilmente. Liedholm ammirava anzitutto l’uomo, con cui girava per musei. Quell’uomo colto e compassato nascondeva il calciatore. Quel calciatore permise allo svedese di concepire una squadra con un centrocampista in più, una via di mezzo fra Beckenbauer e il “primus inter pares” del modulo di Guardiola, l’uomo che si stacca e si abbassa, il Busquets, il De Rossi degli ultimi anni, lo Schweinsteiger. Si ritirò dopo aver riportato in B la Salernitana. Integro, non accondiscendeva.

Bearzot non lo chiamò mai in Nazionale. Lui non disse nulla. Il calcio non lo cercò più. Si sarebbe portato dietro per sempre i profumi e i sentimenti della fanciullezza, della pozzolana, di quando giocava alla Chiesoletta, o sulla spiaggia del Lido di Cincinnato o sul campo dell’Omi a Tormarancia, dove lo pescò Trebiciani, già riluttante alla gioia ma già intimamente convinto, come avrebbe scritto nel suo “Manuale”, che il calcio, laggiù dove nessuno vede, è allegria. Strano ma vero. Era ancora giorno quando strinse la mano a Greame Souness prima della finale col Liverpool. Pareva una statua. Non era amore il suo, erano viscere.

Dopo la sua rete più importante, il rigore realizzato contro il Dundee nella semifinale di Coppa dei Campioni, si limitò a disincagliare il pallone dalla rete e portarselo a centrocampo. Come a dire: «Su, non la facciamo troppo lunga». «Oooh Agostino! Ago-Ago-Ago- Agostino, gol!», intonava la Sud. E ancora lo fa.

La Repubblica – E. Sisti

PER APPROFONDIRE LEGGI ANCHE

I più letti