Pierino Prati: “Roma-Milan e io soffro”

Corriere dello Sport (W.Veltroni) – Uno dei più grandi attaccanti italiani si racconta nella settimana che conduce a una sfida che lo coinvolge emotivamente, Roma-Milan: c’è un pezzo importante della sua storia. Queste le sue parole:

Pierino Prati: dove ha cominciato a giocare a calcio?
«In mezzo ai campi. Vivevo in una fattoria. Mio papà lavorava alle acciaierie della Breda e noi stavamo in quei cortili con le bestie da curare e il latte da mungere. C’era una scuola per circa una quindicina di bambini. A mezzogiorno finivamo e poi c’era tutto il pomeriggio per giocare a pallone fino a quando arrivava il buio e ritornavano i genitori dal lavoro. Facevamo le porte con dei sassi e le palle con gli stracci. Oggi un bambino vede più calcio di quanto ne giochi. Ai miei tempi era il contrario: c’era solo la televisione al bar, e la domenica tutto il paese andava lì a tifare».

Lei per chi tifava allora?
«Io a undici anni giocavo all’oratorio con altri ragazzini, due dei quali facevano parte già del settore giovanile del Milan. Facevo parecchi gol nelle partitine e loro mi dissero: “Perché non ti fai vedere da noi al Milan?”. Il responsabile del settore giovanile era Mr. Liedholm, grande maestro di calcio. Con lui è iniziata la mia avventura. Evidentemente avevo delle qualità, perché mi hanno tesserato dopo una settimana. Andavo agli allenamenti in bici, era bello».

Perché la chiamavano Pierino la peste?
«Nelle prime partite che giocai con il Milan feci vari gol nel finale, gol che per gli avversari era difficile recuperare. Gianni Brera amava me e Gigi Riva, gli piacevano i giocatori forti fisicamente, potenti, acrobatici. Dunque è saltato fuori questo “la peste”. Io non so se sia stato Brera, come per Gigi definito “rombo di tuono”, o i tifosi. So che quando ero alla Roma i tifosi, una volta che andammo a Napoli in trasferta, inventarono uno striscione che diceva “Noi abbiamo la Peste, voi il colera”».

Nel primo incontro con Rocco è vero che lui le fece delle battute sui suoi capelli?
«Il Milan mi aveva mandato in prestito alla Salernitana e poi al Savona. Poi mi richiamarono, Rocco voleva vedermi. Un funzionario mandato dalla società mi accompagnò in Belgio, dove la prima squadra giocava un’amichevole. Io ero vestito come si vestivano i ragazzi di quell’età: pantaloni a campana, giubbetto rosa alla moda. Quando siamo entrati in albergo e il mio tutor ha detto “Signor Rocco, le ho portato Pierino Prati” lui ha cominciato a guardarmi senza dirmi niente. Mi guardava dalla testa ai piedi, in silenzio, continuava ad andare su e giù con lo sguardo, tipo Totò. Poi si girò verso il mio accompagnatore e gli disse: “Guarda che io aspetto Pierino Prati il calciatore, non il cantante”. Mi mandò fuori dall’albergo. Ma era una sua tattica, che poi avrei scoperto dopo. C’erano altri ragazzi che giocavano con me nella Primavera: Maldera, Santin, Nevio Scala, Giorgio Rognoni. Rocco prestava molta attenzione ai giovani e ci martellava, per insegnarci cosa era davvero il calcio. Quello vero, quello dei grandi».

Chi è stato l’allenatore più importante nella sua vita?
«Sicuramente Liedholm ha inciso moltissimo sulla mia crescita tecnica e tattica. Era un tecnico con il quale tutti gli allenamenti erano con il pallone, voleva sempre vedere bel calcio. Ho vissuto sei anni nel settore giovanile, ogni anno salendo di una categoria. Poi Rocco. Che costruì una squadra eccezionale, un mix di giovani e giocatori molto esperti. Se la ricorda quella formazione, quella del magico sessantotto-sessantanove? Cudicini, Anquilletti, Schnellinger, Rosato, Malatrasi, Trapattoni, Hamrin, Lodetti, Sormani, Rivera, Prati… Rocco ha costruito quel gruppo che nel giro di un anno e mezzo ha vinto tutto: campionato, Coppa delle coppe, Coppa dei campioni, l’Intercontinentale».

Ma il Milan del ’68 è una delle squadre più forti che ci siano state nella storia del calcio italiano?
«Non solo di quello italiano. Vincevamo tutto, battevamo tutti. Personalmente l’unica vittoria che mi manca è quella dei mondiali. In Messico e per scherzo avevo detto un giorno a Valcareggi, a proposito di finali, “guardi che le ho vinte tutte. Se non altro porto bene, mi metta dentro”. Noi perdemmo quei mondiali nei supplementari con la Germania. Sono entrati nella storia del calcio ma ci furono fatali. Questa è la verità. Con quell’altura, quel dispendio di energie fisiche e mentali, arrivammo in ginocchio alla partita col Brasile. Ci sarebbe stato bisogno di cambiare molti calciatori. Ma se poi avessimo perso lo stesso avrebbero detto che era colpa di quella scelta. Comunque era un Brasile fortissimo, tra i più grandi della storia».

Lei cosa ricorda di Italia-Brasile? Come era il clima della squadra?
«Era un gruppo veramente compatto. Abbiamo iniziato bene, forse abbiamo solo giocato con pochi giocatori troppe partite. In nale abbiamo tenuto il primo tempo ma poi la stanchezza della vittoria con la Germania, giocata solo tre giorni prima, l’abbiamo pagata, soprattutto a livello fisico. Si è visto nel secondo tempo: c’è stato un crollo»

Nello spogliatoio di quella finale si parlò del cambio Mazzola-Rivera?
«Misero Gianni a sei minuti dalla fine, credo per coinvolgerlo comunque nella partita. Non ho mai capito chi sosteneva l’incompatibilità tra i due. Erano grandi giocatori e i grandi giocatori trovano sempre un equilibrio. Credo abbiano giocato insieme una trentina di volte, in azzurro. La verità è che Gianni era uno schietto, poco diplomatico o poco ipocrita. Gianni quello che pensava diceva. Per questo non era amato in Nazionale».

Mi ricorda i suoi tre gol con l’Ajax nella finale di Coppa dei campioni del 1969?
«Le racconto un aneddoto. Andando allo stadio sul pullman quel giorno non si sentiva una mosca volare perché c’era una tensione grandissima. Rocco avvertì l’atmosfera che si sentiva nel pullman, interpretò quel silenzio. Allora si alzò in piedi e disse forte: “Ragazzi, chi non se la sente di giocare rimanga pure sul pullman, non abbiamo bisogno di paurosi”. Poi siamo andati negli spogliatoi e mancava una persona. La persona era Rocco: lo hanno trovato seduto, da solo, sul pullman. Aveva trovato il modo per sdrammatizzare…».

E quei tre gol?
«Quella notte io non ho dormito. Dovevo fare gol, una finale è una rarità nella vita di un calciatore. Era cominciata male: nei primi minuti tiro un diagonale forte, la palla prende il palo e esce. Lì ho avuto un momento di sconforto. Ma era l’inizio, dopo invece abbiamo giocato alla grande. Gianni era la mente, io il braccio. Io sapevo che lui sapeva mettere la palla dove l’attaccante si era liberato. Matematica. Quando vivevo a Milanello mi era stato utile vedere allenarsi Rivera e Altafini. Mi ero messo in testa che se riuscivo a smarcarmi, a farmi vedere, Gianni la palla me l’avrebbe fatta arrivare: così sapeva fare, nove volte su dieci. Il secondo gol fu bello. Gianni prese palla e la portò al limite dell’area, poi mi smarcò con un colpo di tacco e io da trenta metri l’ho messa forte, a mezza altezza, alla sinistra del portiere. I palloni erano molto leggeri e c’era da fare attenzione quando si calciavano con grande forza, era facile che il pallone si alzasse. Invece l’ho schiacciato veramente bene con il corpo, sono riuscito a tenere la traiettoria molto bassa. Nel terzo sono stato un po’ cattivo perché l’ho segnato di testa, bruciando sulla corsa Hamrin e Sormani. Anche qui Rivera ha dribblato mezzo Ajax e poi è andato sul fondo, temporeggiando. Rivera teneva la palla come per dire “chi è che viene qua a chiuderla?”. Io sono partito con Hamrin e Sormani ma, essendo più giovane, in quei trenta metri li ho distanziati e l’ho messa dentro di testa. Era l’Ajax di Cruyff , e l’abbiamo battuta quattro a uno».

Invece con l’Estudiantes, nella finale Intercontinentale, fu un macello?
«Un dramma. Già a Milano ci avevano picchiato nel sottopassaggio. Mentre aspettavamo l’arbitro, ci davano calci, ci lanciavano sputi, ci volevano intimidire. Quando arrivammo nel loro stadio, alla Bombonera, ci tirarono i palloni addosso durante il riscaldamento, ci spu- tarono, insultarono. Volevano metterci paura, ma noi non avevamo paura. Io dopo un quarto d’ora vengo colpito con una testata ed ho una commozione cerebrale. Mentre sono a terra arriva il portiere, Poletti, facendo una corsa di cinquanta metri, e mi rifila un calcio con la punta della scarpa, sento come se fosse entrato un coltello. Poi lui venne squalificato a vita, come l’altro che, con una gomitata in faccia, ruppe il naso a Combin. Combin, di origine argentina, era considerato un traditore. Aveva anche segnato uno dei tre gol che gli avevamo rifilato a San Siro. A fine partita sono persino arrivati dei poliziotti che hanno preso Combin, con il volto tumefatto, e l’hanno portato in prigione. Noi ci siamo rifiutati di partire senza di lui e allora lo hanno rilasciato. Fu una vittoria amara, perché quello non era più calcio».

Quanto le pesò la concorrenza con quel fenomeno che era Gigi Riva?
«Mi è costata, perché mi è costata tante partite in Nazionale. Però non c’è niente da dire, lui era più bravo. Forse aveva un piccolo vantaggio, perché militava in una squadra dove giocavano tutti per lui. Gigi era bravo, forte sicamente, acrobatico, aveva caratteristiche che condividevamo. Non era male, per l’Italia, avere attaccanti così. Più Boninsegna, Anastasi, Gori…».

Poi lei va via dal Milan con Buticchi. Credo che la motivazione fosse la sua pubalgia, ma forse c’era dell’altro…
«Quell’anno abbiamo perso lo scudetto, io ho giocato fino a metà campionato e, in quel momento, ero in testa nella classifica cannonieri. Poi nella seconda parte mi sono curato facendo punture, ma non riuscivo ad uscirne. Tornai a giocare dopo due mesi ma al primo salto di testa fu come se si fossero staccati i muscoli dal pube. Un dolore pazzesco. Sentirmi dire dalla società che fingevo fu una ferita enorme. Buticchi voleva in verità vendere me e, si disse, pensava di cedere anche Rivera».

Lei andò via amareggiato perché era il suo Milan?
«Sì, incazzato nero, perché non credere al dolore che provavo fu ingiusto e offensivo. Fui ceduto alla Roma. A Roma ho fatto il primo anno giocando con un cinto, con delle gocce di acciaio che mi spingevano il muscolo all’inguine per cercare di sopportare il fastidio che avevo. Giocavo con questa conchiglia, che sembrava quella dei pugili. Però non ero al cento per cento. L’anno dopo sono stato bene e sono riuscito a fare ventidue gol. Ventidue gol allora nella Roma erano come se ne avessi fatti trenta, quaranta a Milano. Quell’anno si è creato un rapporto eccezionale con i tifosi, soprattutto della curva. La stagione del terzo posto è sicuramente nel cuore di tutti i giallorossi. C’era Liedholm che aveva sostituito Scopigno, dopo poche partite. Le prime sei partite non le abbiamo vinte però dopo cambiammo passo e, se tutto fosse andato bene, avremmo potuto anche vincere lo scudetto».

Com’era Di Bartolomei?
«Agostino era un ragazzo tenerissimo. Era un grande. Era un adulto. Sembrava un universitario del pallone, era veramente al di là della sua età. Quando giocava con me aveva diciotto o diciannove anni ma si comportava come un uomo di trenta, trentacinque anni. Grande carattere, grande forza sica. Peccato sia andata a nire così».

Qual è il gol più bello della sua vita?
«Non ero la punta che viveva in sedici metri. Partivo da lontano perché le mie caratteristiche non erano quelle di un dribblomane. Però prendevo gli avversari sulla velocità, la potenza, lo stacco di testa… Il più bello? Forse quello fatto al Varese quando giocavo con la Roma. Ero con la schiena alla porta, mi sono fatto superare dal pallone e poi ho tirato al volo da trenta metri all’incrocio. Non male».

Come vede Roma-Milan, oggi?
«Una sofferenza, perché vorrei facessero punti tutte e due. Potrebbero pareggiare, ma credo che non serva molto pareggiare. Sono due squadre che cercano sempre di vincere».

Mi indica un giocatore della Roma e un giocatore del Milan di oggi che le piacciono?
«Il turco Ünder mi sembra abbia carattere e qualità. Serve quello, all’Olimpico. Al tifoso romanista puoi chiedere tutto se ti impegni, se fai vedere che dai tutto per la squadra. I tifosi giallorossi non amano gli abulici, gli scansafatiche, i furbi che non onorano la maglia».

Del Milan chi le piace?
«Oggi credo che quello che incide di più sia Suso, che in questi due anni è cresciuto molto. Ora sa benissimo che lo marcano non più con un solo uomo ma creano sempre una catena di due o più per non farlo partire, perché una volta libero ha un tipo di tiro molto difficile. Infatti segna di più dell’anno scorso e può crescere ancora».

Se lei dovesse portare su un’isola deserta una maglietta, una sola, della sua carriera di calciatore – Milan, Roma, Nazionale – di quale partita la porterebbe?
«Quella della finale con l’Ajax, sicuramente. Quella sera hanno fatto l’invasione di campo e ci hanno strappato la maglia, i pantaloncini, le scarpe, ci hanno portato via tutto. Anche l’Europeo fu bellissimo, ma giocai solo la prima finale. Sono partite per le quali vieni ricordato in eterno».

Che cosa ha tenuto lei in casa della sua carriera di calciatore?
«La maglia della Nazionale ce l’ho, quella del Milan no. Allora, a fine partita , la consegnavi al magazziniere che la mandava a lavare. Adesso se le scambiano come fossero saluti…».

Chi era il difensore più duro che ha incontrato?
«Il più duro ma leale è stato Burgnich. Altri picchiavano come fabbri. Quando giocavo io non era come oggi, che ti beccano con le immagini anche dopo la partita e ti squalificano. Allora, quando entravi nell’area, se eri uno che aveva paura, potevi anche cambiare ruolo perché menavano e tanto. Per fare dei gol dovevi superare tre ostacoli: il tuo marcatore, il libero e il portiere. E ti potevano menare tutti e tre. Oggi se sei bravo a smarcarti, se sei bravo a giocare in linea e ti salvi dal fuorigioco riesci a segnare. Infatti ci sono giocatori che arrivano vicino ai trenta gol. Evidentemente le difese di una volta erano molto diverse».

 

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