Ciao Petisso, Napoli piange il suo mito

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La Gazzetta dello Sport (M. Malfitano) – Avrebbe compiuto 90 anni tra due mesi, Bruno Pesaola. Ma il suo cuore malandato non ha più retto, impedendogli di tagliare un altro traguardo. Il Petisso è deceduto, ieri mattina, all’ospedale Fatebenefratelli di Napoli, dove era ricoverato per l’aggravarsi delle sue condizioni, per un collasso cardiocircolatorio (funerali oggi, alle 17.30, nella chiesa di Santa Chiara). La notizia ha gettato nella sconforto l’intera città. Napoli è stata la sua casa sin dal 1952, quando arrivò proveniente dal Novara, appena ventisettenne, dopo aver concluso il viaggio di nozze in costiera, con la signora Ornella, la donna della sua vita, scomparsa precocemente nel 1985, lasciandogli dentro un vuoto incolmabile: ogni qualvolta ne parlava, i suoi occhi facevano fatica a trattenere le lacrime e la sua voce si perdeva in un filo sottile.

SOLO NAPOLI Bruno Pesaola viveva in via Caravaggio, nella strada che dal Vomero porta a Fuorigrotta e, dunque, al San Paolo. Dalla sua casa, si godeva il panorama dall’alto, scrutava tutti i giorni lo stadio che lo ha visto protagonista per anni da allenatore, principalmente, perché da calciatore il suo Napoli giocava al Vomero. In compenso, però, era nella formazione che batté la Juventus (2-1), nel dicembre 1959, nel giorno in cui venne inaugurato il San Paolo. Lo chiamavano da sempre il Petisso, il piccolino. E’ stato prima giocatore (compagno di Di Stefano nelle giovanili del River Plate) e poi allenatore di successo. Ha vestito la maglia della Nazionale italiana, da oriundo, e ha vinto uno scudetto, con la Fiorentina, nella stagione 1968- 69, e l’anno successivo venne premiato con il Seminatore d’Oro. Roma, Firenze e Bologna sono state le uniche città che l’hanno preso dopo Napoli. Da calciatore ha sommato 240 presenze in maglia azzurra, segnando 27 reti negli 8 anni di permanenza (dal 1952 al ’60). La prima panchina napoletana arriva nel 1961, quando Achille Lauro lo chiama per sostituire Baldi. Il Napoli è in B, va male. Con l’avvento del Petisso, però, la squadra si rilancia, ottiene la promozione in A e vince la coppa Italia battendo la Spal in finale: un trionfo. Si ripete nella stagione 64-65, conquistando nuovamente la promozione dopo la retrocessione del ’63, e Roberto Fiore, l’allora presidente, gli affida il grande Napoli, quello di Sivori e Altafini: per tre stagioni (1965-68) è grande calcio ma lo scudetto non arriva. E sarà questo il vero vuoto nella sua carriera.

GENIO E SCARAMANZIA E’ andato via, il Petisso, portandosi dietro quel genio e quella sregolatezza che ne hanno caratterizzato l’esistenza. Le immancabili Marlboro a ingiallirgli le dita, le notti al tavolo da poker, il bicchierino di whisky, gli aneddoti e l’umorismo sempre vivo, che hanno dato le giuste tonalità alla sua vita, per buona parte vissuta in solitudine dopo la scomparsa di Ornella e i vari spostamenti di suo figlio, Roberto, laureato in filosofia, autore di testi radiofonici e teatrali con lo pseudonimo di Zap Mangusta. E’ andato via, il Petisso, lasciando simpatia e aneddoti storici che ritornano attuali. A un giornalista napoletano che gli chiese chi avrebbe acquistato il Napoli, rispose: «Un attaccante, Borongo». Il giorno dopo, il titolo del giornale fu: «Borongo al Napoli». Si scoprì, poi, che Borongo non era un giocatore ma un’espressione sudamericana per indicare l’organo sessuale maschile. Durante gli allenamenti poi, voleva i giornalisti in panchina al suo fianco: «E’ meglio che scrivete quello che dico io e non quello che pensate voi, così non fate danni». Unico, inimitabile, Petisso

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