Glerean: “La Roma è un esempio per il calcio italiano. Di Francesco è un uomo straordinario”

AS Roma Match Program (T.Riccardi)All’inizio del nuovo millennio era tra i tecnici più in vista del calcio italiano. Non allenava in Serie A, ma le idee che proponeva con il Cittadella facevano parlare tanti ottenendo pure risultati sorprendenti. Ezio Glerean era definito un rivoluzionario del pallone, il suo 3-3-4 sembrava quasi una provocazione per l’epoca. Sembrava, perché con il tempo è diventato una fonte di ispirazione per chi come Conte o Ventura ha poi schierato quattro giocatori offensivi in linea. Oggi, all’età di 62 anni, è tornato a sedersi su una panchina dopo tanti anni di stopper una scelta personale…”. Si è rimesso in gioco partendo dall’Eccellenza con la Marosticense (nel Vicentino), dalla squadra dove mosse i primi passi da calciatore. Nel 2005-2006 ebbe pure un’esperienza alla Spal, “ma a Ferrara durò poco per diversi problemi. Peccato, la piazza è calda e ti trascina“.

Sette anni lontano dai campi, come mai?
Per vari motivi, ma soprattutto perché notavo che il calcio andava in un’altra direzione a me non particolarmente congeniale.

Ovvero?
Che le società davano più importanza alle figure dirigenziali e meno a quella dell’allenatore. Per me l’allenatore dovrebbe essere il numero due di una società dopo il presidente. È necessario lavorare su ogni aspetto, partendo dalla base e dalla crescita dei giovani calciatori. Un manager dovrebbe fare questo, costruire qualcosa per la società che duri negli anni. Ma non avendo avuta più tanta voce in capitolo negli ultimi club in cui ho lavorato, non è stato possibile attuare le mie idee.

Idee che ha riportato su un libro uscito nel 2014, edito da Mazzanti, “Il calcio e l’isola che non c’è”…
Sì, esattamente, ho cercato di trasferire su carta i miei concetti e di dare un’avvisaglia ai dirigenti del nostro sistema. Quattro anni fa scrissi che andando avanti così non ci saremmo qualificati per i mondiali per mancanza di talenti. E, purtroppo, così è andata.

Qual è il problema principale di questa crisi?
Manca tanto il calcio degli oratori, delle parrocchie, dove si dava libero sfogo ai ragazzi e dove poteva emergere solo tanto. Oggi gli insegnanti, per quanto bravi, danno troppe indicazioni tattiche e non lasciano spazio alla fantasia. Se si imprigiona il talento, poi il calciatore non viene fuori compiuto in tutto e per tutto. Uno come Totti non è più nato, questo è il problema di fondo. Però vedo che le cose stanno cambiando e ora c’è pure un bell’esempio da seguire.

Un esempio?
Sì, la Roma di Di Francesco è un esempio per il calcio italiano e non lo dico perché sto parlando al magazine ufficiale della società giallorossa. Lo penso davvero. Ho conosciuto Di Francesco quando era ancora calciatore, in una trasferta a Sarajevo, e lì ho scoperto un uomo straordinario. Già all’epoca si era interessato al mio calcio, non a caso più volte scambiavano chiacchiere sulla tattica. Ma poi ho avuto modo di approfondire il rapporto ai tempi del Sassuolo, quando lesse il mio libro.

Da cosa rimase colpito, Eusebio?
Gli era piaciuto il concetto di far autogestire una squadra di ragazzi, sotto la supervisione dell’allenatore, lasciando loro lo spazio necessario per non sopprimere il talento del singolo. Di Francesco è sempre stato molto attento alla crescita dei giovani.

Si aspettava che un allenatore proveniente dal Sassuolo potesse arrivare in semifinale di Champions League?
Non mi ha stupito assolutamente, anzi. Eusebio è un grande competente, sa spiegare il suo calcio, ma soprattutto è riuscito a entrare nel cuore dei giocatori con semplicità. Ecco, questo è un altro aspetto che dovremmo recuperare nel calcio italiano. Ci deve essere maggiore empatia, bisogna appassionare i ragazzi a questo sport. Devono tornare ad amare il calcio, altra condizione necessaria per tornare ad avere qualità e fantasia nei piedi dei protagonisti. Nelle varie scuole calcio certi valori si stanno via via disperdendo. Io trent’anni fa andai in Olanda a vedere Cruyff come gestiva il settore giovanile dell’Ajax.

E che esperienza fu quella in Olanda?
Per me illuminante. Cruyff gestiva le squadre del vivaio conoscendo le caratteristiche tecniche e morali dei suoi ragazzi, uno ad uno. Le linee guida del gioco da adottare in campo erano uguali per tutti, dall’ultima squadra alla prima. Stessa cosa ha fatto poi al Barcellona e oggi si vedono i risultati. Come detto, bisogna partire dalla base per costruire modelli vincenti. Ma non si vince solo nel calcio.

Si perde pure…
Proprio così. Altra cosa che cerco di insegnare è il saper accettare la sconfitta e prenderla come una fase di crescita. Non deve essere vista come una cosa negativa. Fa parte del calcio.

In Eccellenza, alla Marosticense, è tornato a utilizzare il 3-3-4?
No, in questo momento dobbiamo pensare a raggiungere la salvezza. Sono stato chiamato in un momento particolare, c’era da dare una mano e ho accettato volentieri. Vedremo il prossimo anno, l’intenzione è quella di costruire come ho fatto in passato al Cittadella o da altre parti.

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